INCROCIATORE ARA GENERALE BELGRANO   

(Traduzione al italiano di Micol Bertolazzi)

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PRESENTAZIONE

Il mio nome è Marcelo Pozzo ed ero un Coscritto della Classe ’62. L'incarico iniziale che mi fu affidato dopo il periodo di istruzione fu quello di marinaio generale. Nel febbraio dell’’82 sono passato alla Divisione Macchine, addetto al Controllo delle Avarie, svolgendo funzioni di furiere in tempo di pace; quando siamo partiti per il Sud facevo il controllore al pannello degli allarmi, ma durante i movimenti di guerra ero pompiere in un gruppo di controllo delle avarie (ci chiamavano “trozos”)

IMPATTO DEI SILURI E NAUFRAGIO

Nel mio particolare caso mi riferisco esclusivamente all’esperienza vissuta alle 16 del 2 maggio 1982: abbandonai la guardia che facevo (fortunatamente) all’interno della nave, nella Centrale di Controllo delle Avarie, e mi buttai a fare un riposino fino all’ora di cena, visto che avrei ricominciato il turno di guardia a mezzanotte. Mi buttai vestito sulla coperta della cuccetta e nell’attimo esatto in cui chiusi gli occhi, sentii provenire dal basso un colpo molto forte che mi fece sbattere contro la cuccetta che stava sopra di me. Quando caddi mi avvolse un’onda di calore, come quando apri il forno rovente della cucina, e riuscii solamente a chiudere gli occhi e a gridare. Sarà durato tutto un paio di secondi e in quel tempo vidi passare tutte le immagini della mia vita, come foto (come nei film), impressionante. Quando il disastro è finito mi sono fermato e ho sentito urla e un silenzio molto particolare. Dopo mi sono accorto che era il silenzio dello scafo: in navigazione tutti gli scafi hanno un rumore (delle macchine) che gli da una certa vita. Sono arrivato all’uscita in coperta e ho visto che dai piani più bassi saliva gente, in formazione ordinata e tranquilla; quello che non riuscivo a capire era perché tutti mi cedevano il passo e mi incoraggiavano a uscire.

Così sono andato avanti e quando sono uscito in coperta mi aspettavo di vedere qualcosa che si fosse distrutto, ma tutto sembrava in ordine. La paura che correva tra i soldati era quella degli Exocet: per molte notti l'argomento, fra le righe, era di come avrebbe reagito la nave davanti ad un missile e le fantasie che correvano erano quelle tipiche dell’età. Quando mi giro vedo che dal boccaporto da dove ero uscito io stava uscendo un mio amico, abbastanza ustionato, e gli chiedo cos’era successo. Lui mi ha risposto “ci hanno silurato, coglion…”. In seguito, quando abbiamo condiviso la camera dell’ospedale, mi ha raccontato la sua esperienza, ed è un miracolo che possa raccontarla… Tornando alla mia storia, guardai il piano, vidi una pozza di sangue e mi dissi “Ecco! Qualcuno è stato ferito” e quando feci più attenzione mi accorsi che il ferito ero io: mi sanguinavano i piedi per aver camminato fino alla scala scalzo sui vetri rotti, mi mancavano le calze di nylon che avevo quando mi ero sdraiato (restava solo l’elastico) e avevo la pelle a brandelli dal ginocchio alla pianta del piede; avevo l’avambraccio destro fino alla mano completamente bruciato e una vescica dal polso fino al mignolo; quando vidi com’ero conciato, e ti assicuro che non sentivo niente, credo un po’ per il freddo che faceva e un po’, mi dissero dopo, per i gas dell’esplosione, andai in infermeria.

Ti dico che fino a questo punto la cosa che colpiva maggiormente era l’ordine che regnava fra tutti. Gli ufficiali impartivano i comandi a voce perché, dato che non c’era energia, non c’erano sistemi di comunicazione; tutti ubbidivano: il Controllo alle Avarie al suo posto, cercando di mantenere la nave a galla, gli infermieri soccorrevano i feriti e gli altri entravano e uscivano dall’interno della nave alla ricerca di gente intrappolata, con vari incendi annunciati da un fumo nero e spesso che saliva dall’interno. Ma la cosa più importante fu il sangue freddo e l’autocontrollo che tutti avevamo: siccome io ero Controllore delle Avarie, quando chiamarono all'ordine per ricoprire questa funzione andai correndo al mio posto, ma un sottufficiale mi vide e mi ordinò di andare in infermeria.

Questo è uno dei primi insegnamenti della nostra esperienza: sappiamo che non è facile e che ognuno reagisce in modo diverso davanti alla stessa situazione, ma è fondamentale mantenere la calma e la lucidità mentale, non lasciarsi sopraffare dal momento e assegnare le priorità dovute ad ogni problema. Dall’altra parte è importante l’allenamento: nessuno vuole, e neppure pensa, che la propria imbarcazione possa naufragare; ma è necessario essere preparati, simulando nei momenti di ozio a bordo cosa accadrebbe e come si dovrebbe reagire; per lo meno avere molto chiaro (se è necessario memorizzando tutto) dove si trova ogni elemento di sopravvivenza a bordo e informare marinai e accompagnatori. Sì, è un caso, ma nessuno ne è esente. Mio nonno diceva “non dire mai mai…”.

ABBANDONO DELLA NAVE

Continuiamo con il racconto: quando il sottufficiale mi mandò in infermeria mi diressi verso quel luogo. Lungo il percorso incontrai gli infermieri che portavano a braccia i ricoverati (c’erano due appena operati di appendicite) avvicinandoli alla zona di salvataggio della nave e mi mandarono direttamente al mio. Fin lì come se niente fosse: l’unica paura che avevo era di infilarmi qualche scheggia del pavimento di coperta, camminando scalzo, cosa che ovviamente non accadde. Il mio posto di salvataggio e il battello a cui ero assegnato era “appesa” a un tribordo della torre 5, la torretta dei cannoni ubicata più a poppa. La mia battello era la numero 63 così, visto che in quel momento camminavo al centro della nave, mi diressi verso poppa. Durante il percorso continuavo a vedere i miei compagni del Controllo delle Avarie che cercavano di attivare delle bombole portatili per prosciugare la nave. Camminando incrociai un altro soldato che veniva con una montagna di coperte con un taglio in mezzo, tipo poncho, che usavano quelli che facevano la guardia in coperta (per proteggersi dal freddo cane che faceva) e vedendomi scoperto me ne offrì una: come dimenticarlo! La nave affondava e a un tipo viene in mente di distribuire coperte tra i compagni svestiti. A partire da allora mi sono convinto che uno arriva a conoscere le persone solo nei momenti limite.

Seguendo il filo, mi sono messo il poncho e ho continuato verso poppa. Per darti un’idea, ti racconto che il “Belgrano” aveva 182 metri di coperta, così tutto era lontano, no? Quando sono arrivato al mio posto ho visto con sorpresa che il battello 63 non era appeso. Pare che con lo scossone si fosse sganciato dalla sicura e fosse caduto in mare. Puoi immaginare l’espressione stupita della mia faccia e quella dei miei compagni di battello. Così, disciplinatamente, abbiamo chiesto al capo delil battello accanto il permesso di imbarcare quando avessero dato l’ordine. In quel momento abbiamo sentito il grido “Abbandonare la nave”, bruttissimo!

Lanciai un ultimo sguardo attorno e la visione era quasi surrealista: a) la nave era inclinata a porto, alla sinistra, circa cuaranta, cuaranta cinque gradi e si faceva fatica a rimanere in piedi, b) nel fianco sinistro, il mare era arrivato alla coperta e l’equipaggio poteva salire ormai sulli battelli con un piccolo salto, mentre che a dritta, il lato diestro, l’acqua era lontana, c) c’erano dei feriti aiutati da altri, d) c’erano due palombari che sgonfiavano un gommone a motore, e) e tutto era calmo, ordinato, non c’erano affatto immagini di panico.

Un caporale mi leva a quella situazione e mi dice di essere il primo a scendere, dato che io era l’unico ferito. Leghiamo una corda alla coperta e comincio a scendere sulla fiancata della nave come Batman fino un occhio di bue (finestrino rotondo) e dopo occorreva saltare sul tetto del battello, come eravamo stati addestrati. Siccome gli altri scendevano con me, mi incitavano a tuffarmi; ma, le ondate del mare facevano oscillare la scialuppa fino quindici metri da una ondata all’altra. Quindi era piu probabile cadere nel mare che sul tetto del battello. Calcolai la traiettoria, mi raccomandai a Dio e mi tuffai. Per fortuna sono caduto sul tetto del battello e sono rimbalzato come una molla per restare dentro. Mi sono accovacciato e ascoltavo come i miei compagni cadevano uno ad uno. Alcuni l’hanno mancata e sono caduti in acqua. Siamo riusciti a trarne in salvo solo 2 di loro: gli altri 3 sono morti in poco tempo per ipotermia. Dopo aver annaspato qualche minuto rimanevano rigidi e galleggiavano con il giubbotto salvagente (che ironia!) gonfio. Il petrolio che c’era nell’acqua rendeva molto difficile il recupero di chi nuotava verso il battello, scivolavano e non potevamo legarli da nessuna parte, e siccome il battello era quasi tonda, il movimento e le manovre per andare a prenderli si facevano molto difficili.

Quando non abbiamo più visto nessuno in coperta abbiamo deciso di tagliare la corda della sicura: in quel preciso istante la nave stava quasi per ribaltarsi. Vedevamo perfettamente il fondo, l’asse di una delle eliche, i piani antirollio, le incrostazioni calcaree. Dato che la porta d’accesso era molto piccola mi sedetti e lasciai che gli altri remassero per allontanarci dalla nave. In un attimo iniziarono a urlare “Affonda!” ed eravamo a 5 metri dalla chiglia! Il silenzio che scese confermò che tutti pensavamo alla stessa cosa: ci risucchia il gorgo e non possiamo raccontare i fatti. Un caporale che mi sedeva accanto mi abbracciò piangendo ed io feci la stessa cosa. In quel momento vidi un’altra volta le sequenze della mia vita e una cosa ancora più strana: vidi la situazione da un altro punto di vista, come se fossi sospeso 15 metri più in alto. Molto strano. Mi scrollarono da quello stato le grida dei miei compagni: “Viva la patria!”, “Viva il Belgrano!” e tutti abbiamo cominciato a pregare. Creo che Dio ci abbia ascoltati perché in quell’istante apparvero i palombari che con il loro gommone cercavano di separare i battelli uno a uno (altro atteggiamento degno di nota, no?); ci hanno allontanati alcuni metri ma sentivamo ugualmente il movimento del battello fino a raggiungere il luogo in cui affondò. Abbiamo sentito delle esplosioni sottomarine e ci siamo preparati a trascorrere la notte. Nemmeno immaginavamo cosa avremmo dovuto sopportare da quel momento in poi…

SOPRAVVIVENZA NEL BATTELLO

Come saprai il Belgrano finì di affondare verso le 17 di domenica 2 maggio 1982. Dato che a queste latitudini alle 18 è già notte e se aggiungi che è sempre nuvoloso, non prometteva niente di buono il resto del giorno. In poco tempo scoppiò una di quelle tormente: c’erano onde di quasi 10 metri, con mulinelli e vento a 100 km/h, che abbassava la temperatura esterna di vari gradi sotto lo zero. C’erano dei momenti nei quali si ascoltava un rumore crescente, come un treno che veniva piu vicino, la barca saliva durante alcuni secondi e dopo la onda rompeva sul tetto sgonfiabile, in realta, sulle nostre spalle e ci sballottava da una parte all’altra; dovevamo fare tutti gli sforzi per cercare di tenerla in equilibrio, per il rischio di capotare; e poi cadevamo interminabilmente, con una sensazione di montagne russe che ti contorceva le budella. Il vomito era permanente in tutti noi. E tutto era al buio soltanto rotto dalle luci delle lanternine.

Le portine del battello non si chiudevano bene permettendo all’acqua di entrare quando si rompeva l’onda. Con questa situazione il battello manteneva sempre un fondo di 3 centimetri d’acqua che, nonostante gli forzi per asciugare, non riuscivamo mai ad eliminare del tutto. Siccome non mi sentivo molto bene ( la disidratazione dovuta alle ferite cominciava a farsi sentire) mi accovacciai coprendomi con la coperta che mi avevano dato prima di lasciare la nave e credo che addirittura riuscii a dormire un po’. Tuttavia continuavo a svegliarmi ora per un’onda, ora per i continui conati di vomito. Quando veniva la nausea, il caporale seduto al mio fianco mi toglieva il cappello da marinaio dalla testa e me lo metteva sulla faccia; quando finiva tutto lo passavano fino al tizio che stava vicino alla porta, lo asciugavano e me lo rimettevano in testa.

Qualcosa di simile accadeva quando avevamo incessantemente voglia di urinare. Mi dilungo un po’ in questo racconto perché penso che risulti kafkiano: quando avevamo voglia ci dovevamo sedere sul bordo laterale del battello facendo più forza di quando vai di corpo, infilare il getto nel recipiente apposito (usavamo il contenitore dei bengala, simile al tubo delle palline da tennis), poi ci passavamo il cilindro di mano in mano fino alla porta, riservandogli lo stesso trattamento del mio cappello. Ti assicuro, era una manovra abbastanza complicata visto che dovevamo reggerci per sederci e sopportare le onde direttamente sulla spalla, aprire la braghetta, TROVARE L’AMICO (non ho mai creduto che potesse sparire come in realtà ha fatto), fare lo sforzo per urinare (terribile) e centrare il tubo spargendo il meno possibile, tutto in mezzo agli scossoni che ci dava il mare. Ti assicuro che questo succedeva a tutti. All’inizio quelli che si trovavano vicino alla porta urinavano verso l’esterno ma la seconda o terza volta decisero di rinunciare visto che la manovra metteva in pericolo la vita dell’amico a causa della temperatura a cui veniva esposto. Si arrivò a organizzare una “guardia della porta”, per mantenere con la mano chiuso il più possibile. Nonostante si usassero due paia di guanti, la temperatura non permetteva di resistere più di 10 o 15 minuti.

Continuando con il tema delle ferite, poco dopo aver cominciato “la navigazione in battello” ho protetto istintivamente il mio avambraccio rovinato contro il mio petto, ma siccome suppurava mi si è appiccicato alla maglietta e con uno scrollone del battello mi si è “staccato” e ha cominciato a sanguinare. In quel momento chiesi il Pancutan o qualcosa che assomigliasse ad una borsa dei medicinali e mi spalmai la pomata sulla parte lesa; poi mi hanno aiutato con una benda per evitare che si appiccicasse ancora ai vestiti.

Come ti ho detto lo scafo del battello manteneva sempre un fondo d’acqua, che era molto fredda e mi faceva perdere la sensibilità sulla punta delle dita dei piedi, così iniziai a muoverle metodicamente per evitare il famoso piede da trincea; per fortuna ce l’ho fatta!

Fin lì avevamo passato il tempo in silenzio, nonostante il sottufficiale a capo del battello si sforzasse di mantenerci svegli, cantando o pregando. Il sentimento generale che regnava a bordo era di tranquillità e di speranza, tanto che i pochi commenti che si facevano si riferivano a come ci avrebbero avvistati o con quali mezzi ci avrebbero recuperati.

SALVATAGGIO

Fortunatamente la mattina seguente albeggiò con un clima migliore, permettendoci di vedere il sole a tratti e dandoci la speranza sulla prossimità del salvataggio. La mattina passò senza novità, credo di aver dormito un po’ finché, verso le 13, un aereo Neptune della Marina passò radente, salutando con le sue ali come nei migliori film di Hollywood. Puoi immaginare la nostra disperazione nel fargli segnali per farci vedere: cercavamo di accendere i bengala (con le istruzioni in INGLESE!) e sbagliavamo con quelli che sparano ma riuscivamo con quelli a mano. Disperati poiché pensavamo di essere gli unici sopravvissuti dato che non vedevamo nessuno vicino; poi ci siamo accorti che i più vicini stavano a 100 metri. Il problema era che la profondità delle onde faceva “scomparire” le scialuppe nei propri seni e quando noi salivamo riuscivamo appena a scorgere una o due scialuppe in lontananza.

Continuavano i commenti, ora più animati. In poco tempo apparve un altro aereo, credo un Fokker F28 della Marina e iniziammo un’altra volta con le urla, fischi, viva la patria e tutte queste cose che in realtà servono più dentro che fuori. La salvezza non poteva tardare. La cosa strana per me in tutta questa situazione era che non conoscevo nessuno di quelli che mi accompagnavano. Alcuni era la prima volta che li vedevo, ma il sentimento e la comunione che c’erano erano sufficienti per chiamarli “amici di tutta la vita”.

Poco dopo divenne ancora notte e in questo modo trascorse il lunedì. Nessuno lo diceva ma tutti avevamo paura di un’altra “nottataccia” come quella anteriore, così le guardie sulla porta erano permanenti e si posizionavano più con l’intenzione di vedere la salvezza che di compiere una funzione specifica. Nonostante gli avvistamenti del mezzogiorno, verso mezzanotte iniziammo a vedere i riflettori delle scialuppe di salvataggio, che poco a poco diventavano più grandi. Verso le 4 del martedì un riflettore si fermò sul nostro battello e accompagnò la manovra finché attraccammo e prendemmo i contatti (dopo 36 ore alla deriva). Nel nostro caso fu l’Avviso Gurruchaga quello che ci salvò. Manovrava con difficoltà per lo stato del mare, ancora abbastanza mosso e con previsione di tormenta anche per quella notte, e fortunatamente veniva verso di noi.

Per attraccare, l’ordine fu quello di rompere il tetto delil battello, tagliandolo con i coltelli da marinaio che possedevamo. Quando i miei compagni l’hanno fatto, ho pensato che sarebbe stato un problema usarla ancora con il tetto così: ho pensato che quella era la mia barca! Un po’ folle, no? Seguendo le istruzioni, dissero che i primi a salire erano i feriti. Pare che io fossi l’unico a bordo, così mi fermai e afferrai la scala di sbarco appesa al lato del babordo del Gurruchaga; salii un paio di scalini finché, guardando verso l’alto, gridai: “Tirate, che non ce la faccio più!”. Mi fecero salire a bordo e nel preciso istante in cui due marinai mi abbracciarono, il mio corpo si disconnesse. Letteralmente, ero cosciente, potevo vedere la coperta dove mi trascinavano ma non potevo muovere un muscolo, non potevo nemmeno tenere la testa dritta. Da lì mi portarono all’interno, mi spogliarono, mi prestarono le prime cure e mi coprirono solo con una coperta. I miei compagni mi prendono ancora in giro quando ci vediamo perché una volta recuperate le forze, passeggiavo per la barca con le chiappe al vento, salutando tutti, persino il Capitano, che in quel momento mi abbracciò.

A TERRA

Bene, la cosa continuò così: quando siamo arrivati a Ushuaia mi hanno portato all’Ospedale Navale e mi hanno fatto le cure appropriate: ci hanno trattati benissimo, le persone ci facevano forza, infermieri, medici, la gente della città veniva in ospedale a trovarci e chiacchieravano. Lì ho trovato altri quattro che erano ustionati o che avevano sofferto per il freddo. Vennero recuperati alcuni cadaveri di gente che abbandonò alcune scialuppe dove la quantità non superava i 5 marinai; sono state recuperate un paio di battelli ribaltate, uno con un paio di cadaveri, l’altro vuoto. L’acqua nello scafo ha prodotto numerosi “piedi da trincea”, ma tutti questi casi si sono salvati dalle amputazioni.

Da lì mi hanno portato con un aereo sanitario all’Ospedale Navale di Puerto Belgrano, insieme al comandante: ci faceva tanta forza il vecchio e ci incitava costantemente con frasi come “forza, miei compagni!” oppure “andiamo marinaio!”. Un chilo se n’è andato! Ma nel lettino sopra al mio c’era un capo plotone che non ce l’ha fatta ed è morto, così tutti abbiamo pregato per il suo riposo.

Quando sono arrivato all’ospedale, mi hanno messo in una sala di terapia intensiva. Venne un capitano medico con un catino e una spazzola di scrofa, di quelli per lavare i vestiti, e mi disse: “Cosa preferisce: cloro o succo di limone?”. Non capivo niente ma tra i dubbi ho scelto il cloro, visto che mi ricordavo che da bambino quando ti cadeva del succo di limone in qualche ferita ti bruciava tantissimo; il tipo riempì il catino con il cloro, prese la spazzola e mi disse: “grida quanto vuoi, ma se mi tocchi ti arriva un pugno!” e iniziò a spazzolarmi le ferite sulle gambe; le mie urla si sentivano fino in Antartide. Poi mi spiegò che per evitare che la ferita si infettasse, il metodo più efficace era questo. Quando finì con le gambe continuò con l’avambraccio e con la mano, e fin lì ho resistito; quando ha finito sono svenuto. È superfluo dirti che le ferite delle scottature sono dolorosissime, non solo per le cure, ma anche per il recupero; scampai i trapianti, anche se avevo bruciature di primo, secondo e terzo grado sul 25% del corpo.

La cosa più forte fu quando, un paio di giorni dopo, il giovedì, accanto alla finestra della camera, fuori, apparvero i miei genitori: mia mamma, come tutte le madri, piangendo (e non smetteva!) e il mio vecchio raccontava delle barzellette (brutte, ovvio) per trattenere le lacrime. Loro non avevano avuto mie notizie dal giorno del naufragio, perciò erano disperati; la mia vecchia scappò in corridoio e ci siamo visti giusto quando mi stavano portando a fare le medicazioni: lì ho capito quanto fossi conciato! Lo notai sulla sua faccia che cercò appena di farmi forza…

Bene, concludendo, che sto diventando un po’ malinconico, trascorsi 30 giorni ricoverato e poi mi destinarono ancora a BsAs, per continuare a fare il soldato! Fino all’ottobre del 1982. Fortunatamente capitai nell’Appostamento Navale della Darsena Nord, a Buenos Aires, ed è stato abbastanza leggero, se consideri che nei 4 o 5 mesi di militare che ho passato lì, ho fatto una guardia di riserva e un’altra appostato. Certo! Ero il furiere che organizzava le liste di guardia, così puoi immaginare, tutti arrivavano nel momento del bisogno.

Da allora sembra che tutti coloro che hanno vissuto questa situazione hanno un messaggio comune: esiste un solo problema che non ha soluzione e si tratta della morte. Tutto il resto si può risolvere o passa. È come se dovesse servire un’esperienza così profonda per capire la vera scala dei valori. E tutti concordiamo su una cosa: salvo rare eccezioni, la maggioranza di noi, ufficiali, sottufficiali e soldati ne siamo usciti cresciuti professionalmente, formando le nostre famiglie e migliorandoci umanamente. Ma non abbiamo mai perso, e anzi lo manteniamo e lo riaffermiamo, lo spirito del gruppo: continuiamo a vederci periodicamente e non mancano mai gli aneddoti di quell’epoca. E il significato più importante che motiva queste riunioni è esaltare l’onore e l’orgoglio di aver partecipato a quella ultima spedizione dell’Incrociatore General Belgrano.

E come missione ci siamo imposti di onorare i 323 compagni, eroi, che sono rimasti nel sud dando la loro vita per una giusta causa, per la Patria.